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Recensione di Gianni Mazzei per La neve e la libellula

Gianni Mazzei (Filosofo, poeta, saggista e romanziere), leggendo
LA NEVE E LA LIBELLULA di Federica Galetto (Terra d’ulivi edizioni 2019)

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Innanzitutto, il titolo, di chiara leggerezza e emotività coloristica.
Il bianco della neve che, silenziosa, si esplica, visivamente in incanto, dal cielo a cadere, volteggiare, fino a posarsi, sulla terra e diventare ghiaccio, estraneità, solitudine: è tutto un elaborarsi di una vicenda che dal cielo, andando verso terra, da fiaba, da leggerezza e gioia nel vederla cadere si tramuta in immobilità, in durezza, in qualcosa di estraniante, quasi a dire il percorso che fa una nostra progettualità, prima entusiasta e fremente, pura nella sua idealità e poi, a diventare accadimento e realizzazione, perde slancio, musicalità, purezza e diventa sporca, violata di passi , fastidiosa e pericolosa.
I colori vibranti della libellula: anch’essa silenziosa, rutilante, vicina all’acqua (dunque, un’intimità con la neve), i pozzi e all’ombra di tamerici, tanto che in qualche dialetto calabro viene denominata “marinara”; la libellula dalla terra va verso il cielo, e sa sostare, nel fremito veloce delle ali, nell’aria, quasi ad imitare la lentezza sognante del fiocco di neve, quasi sospesa .
Tra le due parole “neve” “libellula” c’è una congiunzione: a dirci che tra le due immagini (che possono essere momenti di vita, esterna o atteggiamenti dell’anima: inverno e estate) non c’è antitesi, ma un prolungamento, come scorrere delle stagioni e del tempo, e anche un ripensamento, un tornare indietro .

Coloristicamente la copertina, e anche come aspetto evocativo, sa esprimere il titolo: un viso e lo sguardo, tra il pensieroso  e il sofferto dove prevale il bianco (finanche qualche possibile lacrima) e l’agitarsi del colore e della luce, nei capelli, in modo mosso e aggraziato.

Chi è la poetessa che compare  nei versi?

Una che si dichiara di essere “disabitata”, di  essere “me senza di me” e poi, proprio in questa sua capacità di ridursi all’essenza, sa  abitare la casa, sa animare ogni cellula  del corpo, le parole, ciò che sta fuori, il giardino, le strade, i fiori, gli animali, l’universo intero.

Dove vive la poetessa? Sta tra il davanzale di casa, sempre accogliente  di briciole per i passeri, o “provvisto“ di “brivido”, sta a lato di ogni esperienza, irrisolta, sta oltre lo steccato, sta nel deserto, o oltre la siepe, per rinchiudersi a volte “nella goccia più piccola”.

Cosa fa la poetessa? Si “ausculta”, nella sua lungimiranza, per aprirsi “un  sentiero nel folto di anima/ impervia” e risvegliarsi  dopo “nel respiro di un’(as) soluzione” e trovare, alla fine, con una formula magica “abracadabra” un’assoluzione  che perdura, ridotta all’essenza (ossi)  nei campi, coperti di neve: essa indica il grande momento del silenzio, della riflessione, della necessità del chicco che muore per sentire in primavera  l’urgenza del risveglio e il turgore della spiga.

Federica Galetto è grande poetessa, se la poesia, al di là delle varie definizioni (“Vaticina , o musa e io sarò il tuo profeta” di Pindaro,  “emozione lirica” di Croce “l’arte profetizza un mondo” di Kandiskij, solo per citare qualcuna) che si incontrano nello studio dell’estetica è, forse, più compiutamente, ciò che il mio docente di lettere al ginnasio mi fece trascrivere e che sempre tengo come punto di riferimento quando leggo  poesie  “pensiero mutato in immagine  e espresso in armonia”

Il “pensiero” è il farsi della vita, a livello fisico, interiore, affettivo: è il corpo della protagonista, la sua infanzia, i suoi sogni, le fiabe, gli stupori, i mancamenti, i primi amori, le delusioni, il dolore, la morte (stupende le poesie per il padre ), gli affetti, il mutarsi delle stagioni:  tutti gli altri accadimenti  cioè che la formano;

 come diventa pensiero la voce ciarliera, allegra, a volte rissosa  delle cose che assecondano  o si ribellano  alla nostra vita.

Pensiero sono i riferimenti a Cristo (la cruna dell’ago, il sepolcro, il numero trenta) o a Nietzsche per l’eterno ritorno.

Immagine” è innanzitutto  rendere  emozionante  il pensiero stesso, fluido come acqua stillante  luce in cui ognuno di noi, senza sforzi intellettualistici, pur vivendo altra situazione mentale, emotiva,  sa ritrovarsi; è rendere un accadimento “polivalente”, fuori  dal tempo e dallo spazio che nella realtà  lo circoscrivono, nel suo hic et nunc.

E’ dare, inoltre, in modo naturale e non come scoperto richiamo, valenza ideologica  e simbolica a elementi  caratterizzanti  lo stesso  percorso poetico: la neve per esempio può essere il gelo della realtà, ma anche la fiaba dell’infanzia, lo stupore; così avviene  per la libellula, o per tutti gli aspetti, animati e non, che hanno a che fare con il volo: passeri, falene, lucciole, corvi, gazze, cincia, vento ecc. o che sanno correre veloci, capaci di sfuggire al colpo assassino del cacciatore, andando oltre la curva:lepre, volpe, cervo ecc.

E poi “immagine”  è lo  scintillio di aggettivi, nuovi, personali, propri della 

Galetto e  alcune specifiche immagini.

Cito: “ grandine in solfeggio, grido ribelle delle rondini, colombe radenti crocifiggono/ il bianco nei fiocchi, io bambina di fiamma aperta, la libellula mangia la luce ecc.”

Infine” l’armonia” è   la cantabilità del verso, il ritmo, l’equilibrio  tra pensiero e emozione, tra ciò che i tedeschi chiamano “ senhnsucht” (struggimento) e “stille” ( contemplazione). Si ripresenta, come si vede, nella grande poesia quell’equilibrio, raro, tra apollineo e dionisiaco di cui parla Nietzsche.

La Galetto raggiunge vertici di grande armonia e cantabilità  sperimentando diverse tecniche con sapienza e sempre nell’innato ritmo interiore che anima la sua parola

  1. Attacchi che ti lasciano con il fiato sospeso, in attesa di una grande sinfonia e sonorità della parola e dell’anima “come se dovesse iniziare un viaggio dell’anima di cento/ e un giorno”
  2. Un ritmo che dilaga, come fiume rapinoso, ma che non straripa, nel verso, musicalmente ampio, tramite accostamenti di immagini  o anche ribadendo   certi leitmotiv “ora che qui “( pag 8) , oppure mettendo in evidenza grafica alcune parole, ripetute più volte( vedrò)
  3. C’è nella sua poesia un  gioco sapiente di  accostamenti coloristici , allorchè nomina  la limpidezza  della natura o del corpo, nelle varie stagioni, ricordando fiori, vibrazione dell’aria ecc. “gialle ginestre, capelli di rame lucido” 
  4. Nella silloge esaminata,  c’è  a livello di entità numerica, un  rapporto di uno a tre, per presenze di poesia tra la prima parte( più lunga dedicata alla neve) e la seconda ( la libellula) e con ritmo mutato: mosso nella prima (tranne dopo le poesie al padre, allorchè il verso si fa più cauto, prudente, quasi rispettoso del silenzio della morte e diventa quasi metafisico nell’argomentazione  “disgiunto è/ il medicamento illusorio” e invece è  più vigilato, quasi protetto nella seconda parte: 
  5. In effetti, la seconda parte, è come  se  fosse una riscoperta  di un’infanzia che nella realtà è incosciente, rischiosa; ma, nel ripensarla, può diventare un modus vivendi e di scrivere più disciplinato, con meno errori, pur conservando quella magica atmosfera (proprio del poeta, come dice Pascoli).

la poetessa, infine, sa alternare, per dare vivacità e ritmo, diverse esplicitazioni  di sé stessa: dall’io al tu, ad un terza persona singolare ma anche  plurale; in questo caso viene chiamata in causa  la necessità del destino o anche, di converso,  qualcosa che ci coinvolge di meno  e quindi lo si può controllare meglio.

Ne emerge alla fine anche un percorso di  vita che, anche nel suo essere magmatico e in fieri, sa di aver raggiunto obiettivi importanti.

Certo, ci saranno  ancora “piaghe future” o l’urlo del falco, ma  si preannuncia anche  un nuovo  incontro  “avrò indietro un bocciolo per la  festa/ del nostro  nuovo incontro”

http://www.edizioniterradulivi.it/la-neve-e-la-libellula/219

Trasformare il piombo in oro

Vivere questa quarantena è come trasformare il piombo in oro. Qui, tra fitte nebbie color della ruggine, dove il sole scompare e riappare oltre le torri smerlate, i rami ritorti, i prati induriti dal gelo. Oltre la corte del pensiero che domina la valle, nelle brume di asfalto e sulle colline, scomparse nella pioviggine sottile. Nel cuore del mondo, sui tetti stanchi di brina, nelle stalle e nelle cascine dai focolari riarsi. E i pomeriggi immensi, le mattine pigre, le notti lunghe di sonno e rimpianti. Abbiatene cura. Di me e di quel passaggio d’anime che fila sull’erba sdrucita, abbiate cura del tempo, delle chiese apparse per sanare i dolori, dei camposanti ordinati e delle pietre muschiate.  Quassù piango e rido delle vite che accadono e mi parlano, come voci di donna che cantano. Ma tutto è tremendamente silenzioso, il cielo porta in sé il seme di un vento poderoso, l’unico vero suono che trapassa il legno delle porte e delle finestre. È primo pomeriggio ma la luce è già fioca in questo giorno di primavera anomala. Un altro giorno scorre in attesa di non si sa bene cosa; le previsioni del tempo danno neve. Questo silenzio non appartiene a nessuno, nè ai vivi nè ai morti;  come fossile si introduce nei sassi, nelle trame delle foglie senza movimento, nelle cave di marmo dei sospiri, nel buio, nei giorni increduli di sole, oltre le siepi e dentro le case. Serpeggia, taglia, vaga, sentenzia, morde e non appare. La certezza di questo si ha quando scende la sera o nelle domeniche mattina oltre i vetri, quando nessuno sa perchè le strade s’accavallino e finiscano oltre un lampione.Il silenzio si rompe e si ricostruisce, sfilando via e tornando quando vuole.Il silenzio grida e si arrabatta ai piedi del tavolo, nella tappezzeria e sui mobili, urta la polvere e cade senza fare rumore eppur distruggendo mondi interi. Se solo dio lo volesse potrebbe impugnarlo; ma neanche ci prova, perchè la potenza del suo fiato ricorderebbe la creazione del suo mondo imperfetto. Per un attimo si scorge nelle preghiere, nei buchi di speranza e nei fossi, quelli dove in primavera bruciano le primule. Ecco, ardono le primule, il colore, la forma e la voce dei venti che giungono a combatterlo. I venti lo sanno e tribolano nel tagliargli la testa, nello sfigurarlo per vincerlo. Nessuno sa dove vada e cosa voglia, nessuno lo prende tanto strettamente da imprigionarlo. Oggi fuori c’è il suo sole, un monito che non lo spaventa. Si ricrea e scompare, come la rugiada svapora nella luce e poi ritorna. Sempre. Ci sono anni che si aprono in silenzio, anni in cui scivolano via  promesse, risate, amicizie e amori; e guardando intorno cadono numerose le figurine del vecchio anno appena trascorso. Non sai, guardando quel vuoto, cosa ne sarà del tempo a venire, non sai se tu sei ancora tu o sei diventata talmente infuocata e pericolosa che neppure i corvi osano avvicinarsi.  Una cortina di nubi si staglia all’orizzonte. L’aria grigia sfalda le ombre delle foglie. I cani abbaiano oltre il muro e poco più in là le voci si fanno lontane, attutite nel deserto delle strade. Un’altra giornata all’insegna del silenzio; qui non è cambiato nulla e ciò che si deve evitare è, se possibile, sempre più invisibile.
Un vento furibondo batte le colline. I loro fianchi, le teste, si dolgono in lamenti lunghi, persistenti, tremanti. La casa si fa forza del suo fondamento mentre i balconi agguantano forte le ire, sparse come semi impazziti, vortici in assalto. Dei giorni di marzo questo è quello più pauroso. Tremano la casa e i suoi vetri, il mio cuore e lo stomaco. Trema la mano dei miei morti sulla  porta che sprangata non li lascia entrare. Come se non fossero gia’ qui, trasportati dai tunnel invisibili nelle mura e nelle stanze. Vibra tutto insieme, pietre e anime, mentre aspetto il riposo in questa notte inquieta.

Marzo 2020, quarantena per pandemia


Canto d’amore – Love song

Lady of the Forest -LeRegarddesElfes

art@Lady of the Forest by *Le-Regard-des-Elfes

 

greca

 

***

When the rain shouts

from the leaves beyond

the red hill

burning a breath

I yield

while the hidden side of me struggles

across the muddy field

singing old songs

Let the ancient dandelion clock in

Allow the sand of a far beach

to flow in your hand

Oh let me see the gaze

of my lover walking

on the rocky path of a dead moonlight

For we are One

tonight and forever

(the swan gently glides on the water like a feather)

*

Quando la pioggia grida

dalle foglie oltre

la collina rossa

bruciando un respiro

M’inchino

mentre il lato di me nascosto lotta

attraverso il campo fangoso

cantando vecchie canzoni

Lascia entrare l’antica testa del soffione

Permetti alla sabbia d’una spiaggia lontana

di scorrere nella tua mano

Oh mostrami lo sguardo

del mio amato che cammina

sul sentiero roccioso d’un chiaro di luna spento

Perchè noi siamo Uno

stanotte e per sempre

(il cigno lieve scivola sull’acqua come piuma)